martedì 5 maggio 2009

MOBY DICK

Forse non ci crederete ma sto leggendo Moby Dick. Per lo meno, la mia amica Bo non ci crede. Dice che non è possibile, che uno come me non può farcela, che un maniaco del racconto breve cederà le armi di fronte a quelle 600 pagine di vita a bordo, all’antiquata e altisonante traduzione di Pavese, a tutti i tecnicismi sulle balene. In realtà, ho la sensazione che quello di cui ho bisogno adesso siano proprio i tecnicismi sulle balene. Ho la sensazione che, per come mi sento adesso, la cosa più giusta da leggere sia un capitolo intitolato La testa del capodoglio. Veduta comparata. Un capitolo intitolato Delle balene in dipinto, in denti, in legno, in lastre di ferro, in pietra, in montagna e in stelle. Un capitolo intitolato La grandezza della balena diminuisce? Dovrà scomparire? Forse lo pensava anche Pavese, traducendolo: e magari tuffarsi dentro questo mare avrà fatto dimenticare a Cesare, almeno per qualche tempo, il suo amore ballerina. Il romanzo ha 135 capitoli di quattro o cinque pagine ciascuno, e se ne leggo uno al giorno all’inizio di settembre avrò finito. Sarà un buon compagno per la mia estate nei boschi.

L’altra parte di verità è che ho scoperto Melville scrivendo il primo capitolo della guida a New York, e sono stato catturato dalla sua biografia. Lasciate che la riassuma qui. Herman Melvill nacque in Pearl Street a Manhattan, la strada dei pescatori di ostriche, nel 1819. La madre veniva da una dinastia di proprietari terrieri olandesi, il padre da mercanti inglesi, ed entrambi i nonni erano eroi di guerra della rivoluzione. Due famiglie ricche dell’alta società americana. Anche Herman sarebbe stato destinato a un’esistenza tranquilla, se il padre non fosse andato in bancarotta nel 1830, e morto subito dopo. Doveva aver lasciato parecchi debiti o qualche cattivo ricordo, perché a quel punto la vedova cambiò il cognome dei figli da Melvill a Melville, e li portò a vivere in campagna, nelle tenute dei nonni a nord di New York. Ma Herman era cresciuto in città. Aveva visto il porto, e forse assomigliava al padre. Appena finita la scuola, nel 1839, decise di imbarcarsi: e tra un viaggio e l’altro, tra un mercantile e una nave militare, tra una spedizione ai Caraibi e una traversata dell’Atlantico, rimase in mare per cinque anni, e quando alla fine scese ne aveva venticinque e voleva fare lo scrittore. Scrisse due romanzi, Typee e Omoo, di immediato successo e scarso valore letterario, storie d’amore e d'avventura tra marinai e indigene dei Mari del Sud. Si sposò, e con i compensi dei primi libri comprò una fattoria dalle parti di Saratoga, dove ebbe la fortuna o la maledizione di trovare un vicino eccezionale: Nathaniel Hawthorne. Era il 1851. Non sappiamo quanta parte, nella svolta letteraria di Melville, sia dovuta all’influsso di Hawthorne, ma Moby Dick è dedicato a lui: In segno della mia ammirazione per il suo genio. Dicevo fortuna o maledizione, perché il libro vendette in tutto poco più di 500 copie. Il pubblico non apprezzò il passaggio dalle sensuali danzatrici hawaiane al capitano zoppo ossessionato dalla balena bianca, e per la carriera di Melville fu l’inizio della fine. Scrisse ancora qualcosa, soprattutto e poesie e racconti brevi, tra cui il suo capolavoro Bartleby lo scrivano. Della storia di Bartleby sono state date decine di interpretazioni - potrebbe essere un’opera sul conformismo, sull’alienazione, sulla disobbedienza, sulla sovversione - ma letteralmente è la storia di uno che smette di scrivere, e poi smette di fare tutto il resto, e alla fine si lascia morire. Preferirei di no. Anche Melville preferì di no, e morì del tutto sconosciuto nel 1891, dopo che la fattoria era fallita e lui aveva lavorato per vent’anni alla dogana del porto di New York. E io sono qui, 158 anni dopo che è stato scritto, a leggere un romanzo che comincia così:

Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa - non importa quanti esattamente - avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che mi interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e di vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e regolare la circolazione. Ogni volta che mi sorprendo con le labbra atteggiate al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in strada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo, per me, sta al posto del proiettile e della pistola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io invece mi metto in mare. Non c'è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l’oceano.

Herman Melville, Moby Dick, o la Balena

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