domenica 15 marzo 2009

L'AMICO DEL PAZZO

Certi libri fanno una brutta fine. Il nome di questa fine evoca, a scelta, i roghi delle streghe o l’inferno a cui credevamo da bambini, e io preferisco pensare che sia una metafora, che non esista davvero il locale caldaie con l’operaio che spala il carbone. L’uomo in canottiera che riceve carriole di libri non venduti e non rubati, forse nemmeno sfogliati da una mano curiosa in libreria, o proprio mai esposti sugli scaffali - i libri che hanno passato la loro misera vita dentro uno scatolone, libri a cui è stata negata perfino la possibilità di realizzare il proprio senso sulla terra - l’operaio, dicevo, che vedendo arrivare un altro carico sputa una bestemmia e appoggia la pala al muro, si asciuga la fronte con un fazzoletto sporco, e poi materialmente prende queste carriole di libri non letti e le butta nel fuoco. In ogni caso, di qualunque forma di distruzione sia metafora la parola macero, la cosa funziona più o meno così. A un certo punto un editore decide di liberarsi di un titolo. Sarà perché ha venduto poco, oppure ai suoi tempi ha venduto bene ma ormai non lo chiede più nessuno: e ci sarà una segretarietta secca, per citare il vecchio Bianciardi, che a un certo punto va dal capo e riferisce che fare il rendiconto annuale di quelle poche copie in movimento costa più che ritirarle dalla circolazione. E così il capo mette la firma su un foglio contenente la parola macero. Vuol dire che, da quel momento in poi, il titolo in questione è fuori catalogo. Non più in ristampa. Esaurito.

È appena successo a Marco Drago e al suo libro d’esordio, L’amico del pazzo (Feltrinelli 1998). Siccome Drago, dietro quella scorza da cinico, è un inguaribile sentimentale, mi ha proposto di organizzare un reading che faccia da funerale al pazzo, per non lasciarlo finire nella fossa comune del cimitero di Vienna in un grigio pomeriggio piovoso ma dirgli addio in grande stile - un reading che sia l’equivalente letterario della barchetta di giunchi su cui si allontanava il cadavere di Nicholas Ray, o della palla di cannone con cui furono sparate in orbita le ceneri di Hunter Thompson. E così mi ha passato il libro che ho qui sul tavolo in questo momento. E io, che per qualche motivo me l’ero perso (nel ’98 chissà cosa leggevo, sarò stato nella fase di transizione tra Herman Hesse e Bukowski), prima ho dato un’occhiata al racconto per il reading, e poi l’ho lasciato sul tavolino dell’oblio dove sono ammucchiati i libri in corso, e poi invece la settimana scorsa da lì mi ha chiamato, si è fatto raccogliere e sfogliare, e in una lunga notte di passione me lo sono letto tutto.

Adesso posso dire che L’amico del pazzo è un bellissimo libro. Più che racconti sono monologhi deliranti, il flusso di coscienza di una mente pericolosa.

È un libro in cui un figlio racconta la vita dei suoi genitori, cominciando dalla fine: Gli ultimi anni mia madre metteva La Vestaglia. Dopo un po’ tutti finiamo così, che lo si voglia o no. Tutti così. Ad avanzare tempo per fermare il tempo. A non voler più curarsi di cose fastidiose e superflue come l’aspetto esteriore. Come dire: devo affrontare la devastazione dentro di me, non m’importa della devastazione fuori di me.

È un libro in cui un operaio piemontese, dopo essere stato licenziato dal supermercato in cui lavora, accetta l’offerta di fare l’attore porno a Verona. Lui dà per scontato che non ci sia più posto per lui in un certo mondo normale che aveva frequentato fino a poco prima. Pensa che, una volta in quelle stanze, si debba dire addio alle piccole minchiatine tipo amici, cene in compagnia, famiglia, progetti, progetti, progetti. Una volta che vedi una donna adulta, istruita almeno fino alla quinta superiore, bellina, discretamente intelligente, prendere un pesce rosso vivo e usarlo dentro e fuori il suo buco preferito. Una volta che vedi anche cose come quella, pensa lui, rimane inutile darsi una ragione, spiegarsi, giustificare la propria presenza. Entrasse di colpo un ceffo con un fucile automatico e iniziasse a sparare alla cazzo, nessuno si azzarderebbe a stupirsi.

È un libro ambientato tra le dolci colline delle Langhe, quelle dei vini nobili e delle sagre del tartufo: Ci sono posti che non vorrei mai vedere e uno di questi posti è Alessandria. I primi palazzi alla periferia sud di Alessandria mi atterriscono, e poi anche questa strada per Alba. Ci sono persone che lavorano nelle vigne alle undici di sera. Cani che escono abbaiando dai cancelli e puntano alle caviglie di chi guida (hanno la speranza di trapassare coi denti la lamiera della macchina). Ci sono ragazzini ai bordi della strada, e paesi così brutti da far male.

E poi è un libro che fa ridere, come quando l’amico del pazzo perde la carta del bancomat, il feticcio che lo teneva aggrappato alla vita e agli ultimi residui di lucidità: Alla banca mi dicono che è stato un malinteso e che zero problemi per riavere la carta. In una quindicina di giorni. Come in una quindicina di giorni? Dio madonna, ma questa è la periferia dell’impero, allora. Dove abito? A Karatobe nel Kazakistan interno o in una città italiana? Mentre chiedo quello a una specie di cassiere, la tipa dietro di me dice: “È stato a Karatobe? Mio fratello fa il parroco lì”. Al che io la guardo e le dico che era una battuta e che dire Karatobe per me era come dire Kizil Irmak nel Turkmenistan. Lei mi dice: “È stato anche lì, lo conosce? Padre Romeo, lo conosce?”

E ora tutte queste parole andranno perdute come lacrime nella pioggia. Quando sei andato a letto, quella notte, con il tuo primo libro sotto il cuscino, pensando che il tuo desiderio più grande si era appena realizzato, non immaginavi che sarebbe finita così, non è vero?

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