domenica 20 gennaio 2008

NELLE TERRE ESTREME

Leggo Jon Krakauer, Nelle terre estreme.

Nel 1992 la rivista Outside commissionò a Krakauer, alpinista e scrittore, l’articolo sulla morte di un ragazzo il cui cadavere era stato ritrovato in Alaska. In quei giorni Chris McCandless era soltanto un nome. L’indagine appassionò Krakauer al punto da spendere i successivi quattro anni in ricerche e pubblicare nel 1996 questa biografia - Into the Wild - diventata subito un libro di culto.

Chris era nato nei sobborghi di Washington DC nel 1968. Padre in carriera e madre casalinga, il solito quadro borghese completo di villetta a schiera, barbecue della domenica, studio del pianoforte. Lui non sembrava diverso dall’ambiente in cui era cresciuto. Gran lettore, buon mezzofondista: forse, pensandoci dopo, era sempre stato un solitario. Uno studente metodico che nell’estate del 1990, fresco di laurea e in attesa di iscriversi a un corso di dottorato, parte per una vacanza in macchina attraverso l’America, un viaggio da cui non farà mai più ritorno. Krakauer segue le sue tracce come un investigatore. Quell’estate Chris chiude il conto in banca - circa 25.000 dollari - e dona tutto in beneficenza. Più tardi deciderà di abbandonare l’automobile, bruciare i documenti d’identità, tagliare anche l’ultimo vincolo con il passato cambiando nome e battezzandosi Alexander. Per due anni viaggia attraverso il Midwest, l’Arizona e la California, insieme agli hobo che popolano le strade d’America: gli sradicati e i marginali, i senza casa, gli hippy fuori dal tempo, i tossici e i disoccupati. Le persone che l’hanno incontrato si ricordano bene di lui. Aveva l’aspetto di un vagabondo ma parlava bene, portava uno zaino pieno di libri, faceva amicizia con tutti. A volta si fermava per qualche settimana, lavorava come bracciante o cameriere finché aveva abbastanza soldi per ripartire. E a tutti raccontava il suo sogno: accamparsi nelle zone selvatiche d’Alaska e sopravvivere con le proprie forze.

Nell’estate del 1992 Chris decise di realizzare il progetto e partì per il Nord. Verso la metà di aprile vide per l’ultima volta un essere umano, l’uomo che da Fairbanks gli diede un passaggio fino all’imbocco dello Stampede Trail, una vecchia pista in disuso. Tutto quello che sappiamo dei successivi quattro mesi è descritto in uno scarno diario trovato insieme al suo cadavere, tra i libri di Thoreau e di Tolstoj. La solitudine. La lotta per procurarsi il cibo: bacche, radici e piccola selvaggina. L’esaltazione per le scoperte quotidiane. La meditazione, la paura, la grandiosa imperturbabilità della natura selvaggia. Infine la morte per fame. La storia si apre e si chiude su questo cadavere, svelandone l’origine ma non il mistero. Non c’è nessuna svolta imprevista, nessuna rivelazione - anzi il percorso di Chris sembra una lenta spirale discendente verso il suo inevitabile destino. Krakauer torna nei luoghi, interroga i testimoni, tocca gli oggetti personali e sfoglia i libri: è ossessionato dal ragazzo e al lettore trasmette lo stesso senso di ammirazione, sbigottimento, non comprensione. Che senso ha una scelta tanto radicale da portare alla morte? Il libro è pieno di domande e privo di risposte, e questo è il suo grande pregio. Perché sarebbe facile fare di Chris un simbolo, il paladino della lotta contro il capitalismo e la modernità, oppure un mistico contemporaneo, un ecologista militante, un poeta vagabondo. Come Forrest Gump, l’idiota che comincia a correre senza un motivo, è disponibile a essere l’idolo di qualsiasi seguace, a sventolare qualsiasi bandiera.

Io, leggendo questa storia, ho pensato soprattutto alla religione. I luoghi della rivelazione sono da sempre il deserto, la foresta, la montagna: come se, per avvicinarsi a Dio, l’uomo avesse bisogno di immergersi nella natura selvaggia. Nella letteratura, e soprattutto nella letteratura americana, è un topos narrativo dai padri illustri. Penso a Thoreau, che Chris considerava un padre spirituale, ma anche a Jack London, a Hemingway e al suo fiume dai due cuori, al Kerouac di Big Sur e dei Vagabondi del Dharma. In questi grandi racconti la natura è un rifugio, l’unico luogo di guarigione per spiriti feriti dalla vita, e la wilderness, l’essenza della selvaticità, rappresenta il bisogno di ritirarsi dalla società civile, di riportare l’esistenza alla sua origine animale, di morire per rinascere.

È un mito americano, eppure tocca i cuori di tutti noi. Perché nel nostro intimo sappiamo che cosa cercava Chris McCandless nelle foreste d’Alaska. Perché siamo abbagliati dal senso di assoluto che la sua vita emana, anche se è solo la vita di un ragazzo. Perché con tutte le domande che ci vorticano in testa mentre leggiamo la sua storia, lungo il viaggio scopriamo che il libro ci parla di noi: del nostro rapporto con gli altri, con la casa e con il denaro, con le regole della civiltà, dei nostri ideali e dei nostri compromessi, del nostro terrore della solitudine, del nostro bisogno di trovare un rapporto con lo spirito.

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Volevo il movimento, non un’esistenza quieta. Volevo l’emozione, il pericolo, la possibilità di sacrificare qualcosa al mio amore. Sentivo dentro di me un’abbondanza di energia che non trovava pace in una vita tranquilla.

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Jon Krakauer, Nelle terre estreme

(Traduzione di Laura Ferrari e Sabrina Zung, Corbaccio 2008)

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